Occhio ai borderò

Il cinema visto da uno spettatore qualsiasi

SELMA – LE ALI DELLA LIBERTA’ (2015) di Ava DuVernay

selmaVoto: 1,5/4

Il cinema americano produce spesso delle opere di carattere biografico/storico per riaffermare le conquiste del passato in una società sempre in contraddizione con se stessa. Pellicole che difficilmente all’estero vengono altrettanto apprezzate, ma che in patria riscuotono successo proprio perché rispondono a quest’esigenza ben precisa. Quando nel 2013 la Corte Suprema ha deciso di cancellare la parte del Voting rights act che obbligava alcuni stati del Sud a chiedere l’autorizzazione prima di modificare le proprie leggi elettorali, un film come Selma – Le ali della libertà di Ava DuVernay è diventato necessario. Necessario per ricordare quanto duramente Martin Luther King Jr. e il movimento per i diritti degli afroamericani avessero combattuto nel 1965 per conquistare quelle regole in stati altamente razzisti.

La storia ha inizio in un piccolo paese dell’Alabama, Selma appunto, dove il tentativo di voto (fallito) da parte dell’attivista Annie Lee Cooper (Oprah Winfrey, anche co-produttrice del film) diede il via a un’escalation di proteste, repressioni violente a lotte capace di coinvolgere persino Martin Luther King Jr. (David Oyelowo). Tra il tentativo d’ingerenza del presidente Lyndon B. Johnson (Tom Wilkinson) e il “lavoro sporco” dell’FBI, gli occhi del paese intero si rivolsero verso le marce insanguinate per i diritti civili organizzate a Selma.

Come gli altri candidati all’Oscar per il miglior film The Imitation Game di Morten Tyldum e La teoria del tutto di James Marsh, anche Selma è un biopic ad alto tasso emotivo e di facile fruizione. Tuttavia, a differenza degli altri due contendenti, il film della DuVernay (sceneggiato da Paul Webb) è un lungo sermone auto-celebrativo che non lascia nulla all’immaginazione. Gli infiniti dialoghi e un plot talmente aderente alla realtà da risultare a tratti pedante, sono i difetti principali di un’opera furba tanto quanto The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca (2013) di Lee Daniels, dove Forrest Whitaker interpreta l’assistente nero di tanti presidenti, da Dwight Eisenhower a Ronald Reagan, anche questo ispirato a una storia vera.

Un’idea di cinema impegnato forse consolatoria, ma lontana da ciò che andrebbe fatto: per educare il pubblico non servono queste narrazioni perfette, plastiche, leccate, bisogna piuttosto colpire con la più cruda delle realtà. In questo senso, l’esempio migliore arriva dal recente lavoro del regista britannico Steve McQueen, capace di sconvolgere e far discutere con 12 anni schiavo. Nessun filtro va concesso: per capire tutti devono rivivere (anche se per osmosi, attraverso lo schermo) ciò che all’epoca i personaggi videro coi loro occhi e patirono in prima persona. Da salvare la bella prova di Oyelowo e la colonna sonora, la cui canzone di punta Glory (cantata da John Legend e Common) ha già ricevuto un Golden Globe e vola ad ali spiegate verso l’Oscar. Selma – Le ali della libertà rimane un racconto troppo retorico e patinato, incapace di emozionare o forse anche di smuovere le coscienze.

Articolo pubblicato su Cultweek

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WHIPLASH (2015) di Damien Chazelle

whiplashVoto: 2,5/4

C’è qualcosa di speciale che lega il cinema alla musica jazz, sin dal lontano 6 ottobre 1927 in cui venne proiettato a New York il primo film sonoro della storia, Il cantante di jazz, diretto da Alan Crosland con Al Jolson bianco camuffato da neroA 88 anni di distanza da quello straordinario evento, esce in sala un piccolo gioiellino (candidato a 5 oscar, e ne meriterebbe un paio almeno, visti i film in gara)  che rivitalizza l’incredibile legame, ovvero Whiplash di Damien Chazelle.

Il regista statunitense, al suo secondo lungometraggio dopo Guy and Madeline on a Park Bench (e anche lì la musica era protagonista), dirige un’opera violenta e ritmata che può vantare un cast in stato di grazia composto dal giovane Miles Teller e dal luciferino J.K. Simmons. Andrew (Miles Teller) è un batterista jazz, iscritto al conservatorio di New York, che insperatamente raggiunge la più importante orchestra della scuola, diretta dal temuto Fletcher (J.K. Simmons). L’ossessione di diventare il migliore spingerà il giovane protagonista a sacrificare i propri affetti e si scontrerà con i metodi violenti e traumatizzanti del direttore del complesso.

Non privo di scivoloni retorici, Whiplash è un film gradevole, capace di infondere l’amore per la musica mediante la complessa relazione tra i due personaggi principali. I dialoghi spesso scioccanti e repentini fanno da perfetto compendio alle furiose rullate di batteria o all’armonico incedere dei brani. Il tutto montato rapsodicamente alla perfezione da un cast tecnico che dimostra di conoscere a fondo la materia. Diametralmente opposto rispetto all’ormai mitico L’attimo fuggente (1989) di Peter Weir, qui il rapporto insegnate-allievo diviene fin da subito morboso e ossessivo, esempio stordente di odio reciproco capace di generare mostri o geni, senza alcuna via di mezzo. Tutto il sistema educativo contemporaneo è messo in discussione dal regista, il cui slogan è pronunciato dallo stesso Fletcher al tavolino di un club: “non esistono due peggiori parole al mondo di bel lavoro”. Un’educazione fatta di schiaffi e sangue, che lo spettatore rifiuterà d’istinto ma che finirà cinicamente per accettare.

Articolo pubblicato su Cultweek

AMERICAN SNIPER (2014) di Clint Eastwood

american_snipersVoto: 1,5/4

È impossibile oggi non considerare Clint Eastwood come uno dei massimi registi viventi. Purtroppo però, come spesso accade a cineasti dalla carriera infinita, realizzare opere ancora interessanti si fa di anno in anno più difficile. Non basta l’esperienza a colmare il vuoto che l’attesa ogni volta scava impietosa. Dopo aver portato in sala l’acclamato spettacolo di Broadway Jersey Boys (2014), Eastwood decide di allontanarsi dal musical per raccontare in American Sniper una storia (vera) a lui più affine: quella di Chris Kyle, il cecchino più letale che l’esercito statunitense abbia mai avuto.

A vestire i panni del soldato protagonista ci pensa Bradley Cooper, adatto per interpretare il superuomo che solo a tratti lascia trasparire il proprio stato d’animo, diviso costantemente tra famiglia e patria. Un percorso che compie quasi come una macchina guidata a tutta velocità dallo Zio Sam, con alcune incertezze o dubbi che sorgono flebilmente solamente a fine corsa. Proprio per questo, nonostante sia un racconto ispirato a fatti realmente accaduti, American Sniper non risulta realistico. Un errore che nasce dal mix tra scarso approfondimento psicologico del personaggio ed eccessivo utilizzo di una ridondante retorica patriottica (facilmente perdonabile e meno presente in bellissimi film come Gran Torino o Flags of Our Fathers). I dialoghi pomposi riescono solo ad accentuare i vuoti di sceneggiatura e la totale superficialità nel raccontare le psicopatologie post-belliche.

Eastwood perde inoltre un inevitabile (a livello temporale) impietoso confronto con quello che in poco tempo è diventato un punto di riferimento del genere, girato da Kathryn Bigelow e intitolato Zero Dark Thirty (2012). Sono ancora troppo vive nella memoria degli appassionati (e non) quelle straordinarie immagini di puro cinema in cui i SEALS scovavano e uccidevano Osama Bin Laden. Il paragone semplicemente non regge, il ritmo compassato non permette nemmeno ai più mordaci fan dell’ottantaquattrenne regista di apprezzare questa sua ultima fatica.

L’unica sequenza da ricordare è l’arrivo di una tempesta di sabbia durante un prolungato scontro a fuoco, in cui gli sfocati soldati si muovono veloci come fantasmi all’inferno verso la salvezza. Peccato che siano solo pochi i secondi in cui il conflitto rappresentato assume i toni confusi che questa guerra ebbe nella realtà: una lotta impari e caotica contro un nemico perfetto pronto a tutto pur di vendicarsi.

Articolo pubblicato su I-FILMSonline

PRIDE (2014) di Matthew Warchus

prideVoto: 2,5/4

Con una scatenata colonna sonora anni ’80, capace di far muovere anche lo spettatore più impacciato, arriva nelle sale Pride di Matthew Warchus, pellicola che ha conquistato il pubblico vincendo una Queer palm all’ultimo Festival di Cannes. Le note dei Joy Division, Queen, Human League e Pet Shop Boys accompagnano egregiamente quello che in patria è stato un enorme successo al botteghino e che ha raccolto quasi solo pareri positivi dalla critica.

Londra 1984: il giovane attivista gay Mark Ashton (Ben Schnetzer) decide di fondare un movimento che solidarizzi con i minatori britannici, impegnati in un lungo sciopero contro le dure misure adottate dal governo della premier Margaret Thatcher. LGSM (acronimo di Lesbiche e gay supportano i minatori) dovrà però affrontare a Londra le difficoltà della raccolta dei fondi e nello sperduto paese di Onllwyn, nella valle del Delais, combattere la diffidenza dei lavoratori gallesi, scettici nel ricevere un aiuto da un gruppo apertamente omosessuale.

Pride si colloca a pieno merito nella tradizione britannica della commedia brillante, frutto di un’ironia leggera abbinata solitamente a situazioni curiosamente fuori dal comune. Un genere cinematografico che negli ultimi anni ha regalato alcuni piccoli casi come Billy Elliot (2000) e Full Monty – Squattrinati organizzati (1997). E proprio come questi due illustri precedenti, il film di Warchus si fonda sul contrasto di due mondi antitetici che generano situazioni divertenti al solo contatto. Perché nell’Inghilterra di metà anni Ottanta la desolata, arretrata e chiusa campagna del Galles, e soprattutto gran parte dei suoi abitanti (dai quali si discostano il solito strepitoso Bill Nighy, leader della Union locale e Imelda Staunton, che incarna l’anima popolare più aperta) non è pronta ad accogliere, sia pure come alleati degli orgogliosi e cosmopoliti giovani che rivendicano e difendono il proprio orientamento sessuale.

Un esempio che noi italiani oggi dovremmo far nostro, in un paese in cui la commedia sulle diversità assume i toni banali e bozzettistici dei vari Benvenuti al Sud (2010) e del più recente La scuola più bella del mondo (2014). Film in grado di far ridere solo attraverso l’iperbole regionale, con buona pace della ben più alta tradizione dei vari Risi e Monicelli.

Pride nasce da una storia vera, sostanzialmente rispettata dalla sceneggiatura discreta anche se forse a tratti troppo melensa, di Stephen Beresford, che culmina nella parziale integrazione dei due gruppi, con conseguenze tutte da gustare. Una conquista difficile da raggiungere, tanto nelle periferiche lande gallesi, quanto nella City proiettata al futuro: perché i nemici, comuni da sconfiggere (oltre all’arcigna Thatcher) sono il pregiudizio e l’ignoranza.

Articolo pubblicato su Cultweek

MOMMY (2014) di Xavier Dolan

MommyVoto: 3,5/4

Mommy di Xavier Dolan, premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes, è la storia (ripresa in formato 1:1) di Steve, ragazzo affetto da un disturbo di personalità che torna a vivere con la madre dopo un periodo in un centro di recupero. La donna sarà così costretta a riaccogliere e arginare il ragazzo, aiutata nel difficile compito da una vicina ex insegnante. E la nostra attenzione è tutta sui volti (da qui il formato ristretto), focalizzata sulle espressioni e gli attimi che dividono la tranquillità apparente dalla violenza più cieca.

Il tumulto mentale di Steve è difficile da arginare, e il protagonista cerca di fronteggiarlo attraverso una compilation di ricordi musicali incredibilmente variegata e pop (si passa con facilità disarmante da Bocelli agli Eiffel 65).
Ecco un buon esempio di cosa oggi dovrebbe essere il cinema: un mezzo per veicolare messaggi unici, originali e indispensabili, in un’epoca in cui non si lotta più per i propri diritti ma per trovare una collocazione nel mondo. Vorremmo vedere sempre più protagonisti che non rivendicano in astratto, non ambiscono a cambiare la società, ma cercano più “semplicemente” di trovare un equilibrio nella propria esistenza.

Non un’opera sugli ultimi, ma su chi è fuori asse rispetto al normale schema designato dalla civiltà. Una maestra che non riesce a parlare, una madre mai cresciuta e un ragazzo senza filtri sono perfette pedine che si spostano disperate in una scacchiera priva di riquadri. Il cast merita quindi una menzione speciale: i tre attori principali, già diretti in passato da Dolan, trovano qui un’alchimia inarrivabile. Anne DorvalAntoine-Olivier Pilon e Suzanne Clément si lasciano travolgere dagli improvvisi picchi emotivi presenti nello script, coinvolgendo e straziando senza diritto di replica il pubblico in sala.

Ma ecco che, come accade a volte nella realtà, inaspettatamente si trova un equilibrio, una fase di apparente felicità dove lo schermo si apre e fa sognare. Qualcosa di sfuggevole, però, una sensazione che svanisce con la facilità con cui si apre una busta: perché i problemi ritornano sempre. Ma è giusto così: nessuno si illude, nessuno sogna (tranne una rapida proiezione sulle note di Ludovico Einaudi), la realtà è troppo dura, imperfetta. E Dolan è in grado di raccontarla con maestria da veterano, nonostante abbia solo 25 anni.

Articolo pubblicato su Cultweek

DRACULA UNTOLD (2014) di Gary Shore

Dracula UntoldVoto: 1/4

A 83 anni da Dracula di Tod Browning, la Universal decide di produrre un’altra pellicola, l’ennesima forse, con al centro la leggenda del vampiro più famoso della storia. Ma Dracula Untold, diretto dall’esordiente Gary Shore e che vanta un rispettabile budget da 70 milioni di dollari, arriva nelle sale con uno scopo piuttosto preciso: raccontare la genesi del terribile mostro succhia sangue. Così il palestratoLuke Evans si presenta nei panni del conte Vlad III di Valacchia, personaggio realmente esistito, che ispirò inizialmente il personaggio letterario creato da Bram Stoker: meglio conosciuto come l’impalatore, difende il suo regno e i suoi cari dall’invasione dell’esercito turco capeggiato da Maometto II (impersonato qui da Dominic Cooper).

Il film è una discutibile e decisamente radicale rivisitazione di un grande mito, che abbandona i classici caratteri gotici, e la suspense di origine erotica e horror, in favore dell’epica e di una scontata violenza al servizio delle battaglie. Un’operazione che dovrebbe servire a umanizzare un personaggio che mai, però, il pubblico ha voluto vedere dal lato umano, attratto com’è dallo spaventosamente perfetto alone di mistero e paura in cui è sempre stato immerso. Perché, come dice proprio lo stesso Vlad III, «l’uomo non teme le spade, ha più paura dei mostri».

Così non bastano a salvare l’operazione gli spettacolari e ricchi effetti speciali: la sostanza di Dracula Untold è friabile fin dal cuore della narrazione: difficile digerire un vampiro, divenuto tale per il bene della famiglia, e che oltretutto combatte i cattivi invasori. Un blockbuster poco riuscito perché pensato troppo con gli occhi rivolti al botteghino, che verrà archiviato alla svelta come un ennesimo reboot, una riedizione tra tante.

Recensione pubblicata su Cultweek

GUARDIANI DELLA GALASSIA (2014) di James Gunn

GuardiansOfTheGalaxyVoto: 2,5/4

La Marvel cambia marcia: dopo aver affrontato conservativamente la “fase 2” (periodo che comprende le pellicole uscite dopo The Avengers), gli studios hanno deciso di dare vita a un progetto diametralmente opposto ai classici superhero movies fin qui distribuiti. Niente più eroi da fumetto invincibili coinvolti in battaglie galattiche e innamorati della bella mortale; l’unico modo per riaccendere l’interesse del pubblico per il filone era caratterizzare all’estremo dei quasi sconosciuti antieroi, ironici e divertenti come non mai. Il testosterone lascia spazio alla risata insomma, con grande giubilo del distributore Walt Disney.

Questi sono i Guardiani della Galassia portati al cinema da James Gunn (regista dalla scarsa esperienza, con alle spalle il dimenticato Super – Attento crimine!!! e lo sconosciuto Slither) e interpretati da un improbabile cast composto da Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Bautista, Lee Pace e dalle voci del duo Vin Diesel – Bradley Cooper. Il terrestre rapito Peter Quill (Pratt) si unisce al super distruttore Drax (Bautista), all’assassina Gamora (Saldana) e ai due cacciatori di taglie Rocket (Cooper) e Groot (Diesel) per salvare l’universo dalla minaccia del terribile Ronan (Pace).

Con un uso abbastanza superfluo del 3D, una motion capture incredibile e un cast in grande forma, il film è il primo vero Marvel movie di pura fantascienza, spassoso divertissement per bambinoni, ammiccante al punto giusto e dal ritmo incalzante. I creatori dimostrano di muoversi a loro agio in questa galassia di mostri improbabili (il procione sboccato Rocket e l’albero mono-frase Groot su tutti), perfettamente padroni dei dettami imposti dai capostipiti del genere come Star Wars e Star Trek. Il punto debole di Guardiani della Galassia è paradossalmente nelle scene d’azione, percepite dallo spettatore come un fastidioso intermezzo ai ben scritti scambi tra i personaggi. La sequenza madre, quella in cui viene sferrato l’attacco finale al pianeta di Xandar, oltre a risultare pesante, sembra una citazione (fin troppo) esplicita al blockbuster anni ’90 per eccellenza Independence day.

La colonna sonora, composta da brani di David Bowie, Blue Swede, The Runaways e Jackson 5, è la ciliegina sulla torta che trova uno spazio fondamentale nella narrazione grazie all’intelligente espediente della vecchia compilation in musicassetta donata al protagonista dalla madre morente. Un salto nel passato dritti verso il futuro (del genere).

HUNGRY HEARTS (2014) di Saverio Costanzo

hungry-heartsVoto 1/4

È stato accolto da timidi applausi il secondo film italiano in Concorso al Festival di Venezia, Hungry Hearts di Saverio Costanzo con Alba Rohrwacher e Adam Driver. La pellicola, tratta dal libro Il bambino indaco di Marco Franzoso, è ambientata in un piccolissimo appartamento di New York in cui convivono Mina (Alba Rohrwacher) e Jude (Adam Driver), coppia moderna alle prese con una gravidanza non programmata. La giovane neo mamma, convinta che il piccolo sia speciale (definito da un’indovina “un bimbo indaco”), inizierà a prendersene cura ossessivamente mettendo a repentaglio la salute del pargolo.

Costanzo ci riprova al Lido dopo aver presentato La solitudine dei numeri primi nel 2010, ma purtroppo il risultato è anche questa volta negativo. Con una colonna sonora che pare sempre casuale, il confuso susseguirsi degli eventi è supportato da una messa in scena dilettantesca al limite del ridicolo; close-up inutili, movimenti di camera superflui e un errato uso delle luci sono solamente alcuni degli esempi sparsi nel film. Un racconto che sarebbe potuto essere ambientato in Italia (la Grande mela non è quasi mai caratterizzata), raffazzonato collage di banali citazioni al cinema di genere. Da dimenticare.

MANGLEHORN (2014) di David Gordon Green

manglehornVoto: 1,5/4

David Gordon Green torna alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia un anno dopo Joe (2013) con Manglehorn, deludente storia di un anziano fabbro nostalgico interpretato da Al Pacino. Il cast è completato da Holly Hunter, Harmony Korine e Chris Messina. In Texas vive Angelo Manglehorn, proprietario di una ferramenta tormentato dall’amore per una vecchia fiamma che, per rompere la noiosa quotidianità, decide di (ri)costruire alcuni rapporti umani (con il figlio che non vede mai e con l’impiegata compiacente della banca).

Dopo gli applausi che accompagnarono la proiezione del convincente Joe, questa volta Gordon Green toppa alla grande in Laguna, dirigendo una pellicola senza idee e con alcune fastidiose cadute di stile (come la sequenza in cui due personaggi cantano a squarciagola in banca), difficilmente inquadrabili nel tono complessivo dell’opera. Scelte che spiazzano il pubblico e che sicuramente non aiutano la leggibilità del film. Il più grosso difetto resta però la grave carenza di contenuti, in un plot debole e quasi mai interessante che procede lento verso un finale enigmatico e fastidioso. Appaiono in questo senso interminabili le parti in cui la dissolvenza permette ad Angelo di leggere le frasi scritte per l’ex amante. Criticità queste che hanno la meglio anche sulla prova di Al Pacino, apparso stanco nel mettere in scena un personaggio assai confuso e molto prolisso.

99 HOMES (2014) di Ramin Bahrani

99_HomesVoto: 2/4

La crisi immobiliare made in Usa va in scena al Lido. Una delle piaghe più devastanti della storia americana è il soggetto su cui è costruito 99 Homes di Ramin Bahrani, film presentato in concorso alla 71. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. La pellicola ambientata a Orlando in Florida, è interpretata da Andrew Garfield, Michael Shannon e Laura Dern. Dennis (Andrew Garfield) è un ragazzo padre a cui viene pignorata la casa dalle banche. Alloggiato temporaneamente in un motel, il protagonista troverà poi lavoro nel settore proprio grazie al potente esecutore del suo sfratto (Michael Shannon).

Da uno spunto veramente originale prende vita con il passare dei minuti una pellicola stucchevolmente classica, un difetto che nasce dalla necessità di compiacere a tutti i costi un’ampia fetta di pubblico (probabile infatti una distribuzione massiccia nelle sale). Alcune fasce infatti non avrebbero sopportato un ritratto fedele, duro e disincantato: il lieto fine è quindi un abbaglio funzionale alla causa. Lo stesso non può essere detto per il protagonista Garfield, qui al primo ruolo senza costume dopo The Amazing Spiderman. Fisicamente molto lontano dal tutto fare provato dalla crisi, l’attore paga pegno nonostante l’impegno. Shannon e Dern invece, come al solito in parte.

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